Ieri sera siamo stati invitati in un liceo per parlare di “Adolescenza 3.0 – interpretare la crisi, curare il disagio”, un testo pensato per genitori, insegnanti, educatori, operatori del sociale. Un libro che parla di adolescenti, ma che interroga profondamente gli adulti.
Ci aspettavamo dunque una platea di adulti: principalmente genitori e, speravamo, anche qualche insegnante. Invece, con grande sorpresa, ad accoglierci abbiamo trovato quattro genitori, tre insegnanti e un folto gruppo di studenti della scuola.
Curiosi. Attenti. Partecipi. Sintonizzati.
Siamo rimasti colpiti dal fatto che nessuno di loro ha guardato lo smartphone durante le quasi due ore di incontro, e ci siamo entusiasmati per la profondità e l’acume delle domande che ci hanno rivolto. Con la loro presenza e con le loro osservazioni, questi ragazzi raccontavano agli adulti il loro bisogno di ascolto, di dialogo, di comprensione.
Ma gli adulti non c’erano.
È stato un momento intenso e bellissimo, ma al contempo emblematico e sconcertante, che ci butta addosso un paradosso evidente: mentre ci confrontavamo coi ragazzi sulla necessità di avere adulti che non abbiano paura di fare gli adulti, questi erano altrove. Forse impegnati, stanchi, distratti. Probabilmente spaventati. Comunque assenti.
«Quindi in questa società così diversa da quella in cui siete cresciuti voi, oggi noi adolescenti dobbiamo farci da soli?» chiede Elisa con sguardo interessato, coinvolto ma anche preoccupato.
Una bella stoccata a noi “grandi”, non c’è che dire.
In un momento in cui gli adulti sono fragili e lontani, ieri sera al liceo Frisi di Monza gli adolescenti ci hanno dato un’importante lezione: «Se non riuscite a raggiungerci voi, vi veniamo incontro noi».
Ecco allora la domanda che ci portiamo a casa: cosa devono fare i nostri ragazzi per far sì che gli adulti tornino a occupare il loro posto e a esercitare la loro funzione?
Milano, 16/04/2025
Cecilia Ferrari e Gianluca Marchesini